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Le cabine fototessera non sono un problema: perché rimuoverle è una scelta miope e antiurbana

Il Municipio I ne propone la rimozione, ma Dedem difende le sue storiche strutture: non solo macchinette per fototessere, ma presìdi urbani capaci di generare relazioni e offrire anche nuovi servizi sociali.

Cabine fototessera, tra funzione sociale e memoria collettiva: Roma ripensa il suo spazio pubblico

Sono una presenza silenziosa, ma oggi tornano al centro del dibattito romano: sono le cabine fototessera. Il Municipio I ha approvato all’unanimità una mozione che ne propone la riduzione e il riposizionamento in alcune zone della città, giudicandole ormai inutilizzate o fonte di degrado.

Nel mirino, in particolare, ci sono alcune postazioni tra via Volturno, piazza dell’Indipendenza, piazza Vittorio e viale Manzoni. Secondo il documento, queste cabine sarebbero diventate “ricettacolo di rifiuti oggetti vari, luogo di spaccio e di espletamento dei bisogni corporei”. Da qui, l’invito rivolto all’amministrazione comunale a intervenire per ripulire e “ridimensionare” la presenza di queste strutture nello spazio urbano.

Ma davvero queste strutture sono solo un relitto urbano da rimuovere? Non la pensa così Michele Carucci, responsabile marketing e comunicazione del Gruppo Dedem, l’azienda che da oltre sessant’anni installa e gestisce le cabine in tutta Italia ed in diversi paesi del mondo: “Eliminarle significa privare la città non solo di un servizio, ma di un presidio umano. Una cabina non è un ostacolo. È prossimità, memoria, funzione”.

E ancora: “Pensare che rappresenti un problema è distogliere lo sguardo dal vero decadimento”. La prima cabina italiana venne installata proprio a Roma, nella Galleria Colonna, nel 1962. Da allora, generazioni di italiani vi hanno stampato foto per documenti, ricordi di amicizie e amori, riti di passaggio adolescenziali. Oggi, anche nell’era digitale, restano utili per certificazioni ufficiali e servizi pubblici.

Ma non è solo questione di utilità. Urbanisti come Jane Jacobs o Jan Gehl ci ricordano che le città si vivono nei piccoli scambi: nei luoghi dove ci si ferma, ci si incontra, ci si riconosce. Le cabine fototessera, in quest’ottica, non sono elementi d’arredo urbano: sono “piccole infrastrutture” di umanità, come le definisce lo stesso Carucci. E possono persino evolvere. Un esempio concreto arriva da Torpignattara, dove Dedem ha promosso un intervento di riqualificazione attorno a una vecchia cabina. Invece di essere rimossa, è stata recuperata insieme al quartiere, trasformandosi in punto di riferimento e relazione.

Un altro progetto più recente riguarda le Pink Box: tante cabine, da Milano a Palermo, sono già state riconvertite in stazioni di emergenza contro la violenza di genere. Con la semplice pressione di un pulsante, si può attivare un collegamento diretto e riservato con il numero 1522, operativo 24 ore su 24 in tutte le lingue. Nel dibattito romano il rischio è guardare alla superficie, ignorando il valore potenziale di strutture che, con interventi mirati, possono tornare a essere spazi vivi, inclusivi, vicini ai bisogni reali della città. Ecco perché liquidare le cabine fototessera come arredi inutili è una visione miope. Il diritto alla città, come ricorda Saskia Sassen, non si misura con le grandi opere, ma si gioca nei dettagli. E tra questi, anche il gesto semplice di entrare in una cabina e scattare una foto ha un estremo valore. Anche, e forse soprattutto, nel 2025.

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